di S.L.
È ormai ben noto a tutti che,
parlando con un pratellese che abbia più di 30 o 40 anni, ci si ritrovi ad
ascoltare racconti in qualche modo correlati con esperienze soprannaturali
vissute in prima persona o, più spesso, riferite. L’immaginario collettivo non
sembra essere estraneo ad una serie di figure di antica tradizione i cui nomi
sono, a memoria d’uomo, da sempre presenti nelle più disparate storie,
rivestendo il ruolo di causa di eventi paranormali, spiegazione di fenomeni
altrimenti incomprensibili, veicoli di malocchi, fatture e sortilegi vari e,
infine, spauracchio per bambini troppo turbolenti.
La figura che più spesso ricorre
nelle fantasie e nei racconti è, senza dubbio, quella della janara, un essere la cui credenza è
diffusa in tutta la Campania. Essa è assimilabile ad una strega che agisce per
i suoi malefici fini principalmente la notte, mentre di giorno è una normale
donna che tiene ben celata la sua caratteristica soprannaturale. Il nome janara deriverebbe, secondo il celebre
filologo G. Rohlfs, dalla divinità Diana, tramite l’interposizione del nome
“dianaria”[1]. È possibile che questa etimologia sia un residuato del culto di Diana soppresso
dopo l’arrivo dei cristiani longobardi in Campania.
Il suo operato è quanto mai disparato:
è in grado di far inacidire il latte, gettare il malocchio su qualcuno causando, tra le altre conseguenze, un mal di
testa di difficile risoluzione e alla cui origine è possibile risalire
valutando l’espansione di una goccia d’olio opportunamente gettata in acqua;
un’altra azione relativamente comune sembra essere quella di intrecciare le
criniere dei cavalli lasciati in stalla durante la notte. Tuttavia l’azione più
caratteristica della janara è quella di entrare nelle camere da letto dei
dormienti causando loro terrificanti esperienze: la strega si pone sul petto
del malcapitato che, avendo i movimenti ridotti o del tutto impediti, si trova
nella condizione di non poter reagire, diventando spettatore di visioni macabre
e terrorizzanti. Il triste trattamento, inoltre, si trasforma spesso in
percosse. A questi esempi bisogna aggiungere che, più in generale, ogni evento
negativo o inspiegabile poteva (secondo alcuni ancora può) essere ascritto
all’operato demoniaco della janara.
Dettaglio della predella della Pala del Corpus Domini, di Paolo Uccello, Urbino.
Vicino al camino si nota una padella di olio bollente in cui è stata gettata un'ostia grondante sangue.
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Da tutte le precedenti azioni, si
differenzia per la sua immoralità, il sacrilegio dell’ostia consacrata. Vi è un
certo accordo sul fatto che la janara
necessiti per i propri rituali, o almeno per alcuni, della presenza di un’ostia
trafugata in chiesa durante la distribuzione della comunione e occultata poco
dopo averla ricevuta. Una volta ottenuta l’ostia, questa verrebbe gettata in
olio bollente come parte del rituale. Tali dicerie sembrano inserirsi
nell’ antico filone del sacrilegio dell’ostia per ottenerne vantaggi o poteri.
Se
si esaminano, anche sommariamente, gli innumerevoli miracoli eucaristici, si
trova come a movente del furto delle ostie vi fosse spesso la richiesta di una
strega o di una fattucchiera per portare avanti un qualche maleficio. Una
cronaca dettagliata di un’ostia gettata in olio bollente è quella del miracolo di Trani, avvenuto intorno
all’ anno 1000, a
testimonianza di come tale credenza sia antica e diffusa almeno nell’ Italia
meridionale, sebbene nel caso specifico l’azione sacrilega non fosse portata
avanti da una strega ma da una donna infedele. Per quanto le nefaste azioni di queste
megere fossero note a tutti, non erano ineluttabili. Potevano infatti essere
evitate con una serie di espedienti facenti tutti cardine su due specifiche
caratteristiche della janara: la sua
assoluta necessità di dover contare con precisione una serie di piccoli oggetti
presenti in gran numero e la sua ritrosia a che la sua identità fosse resa
nota.
Per questi motivi era comune tenere
una scopa dietro la porta d’ingresso cosicché, se entrata, la janara trascorresse l’intera notte
contando le setole della scopa. Secondo alcune versioni, queste figure non
sarebbero molto abili nel contare, dovendo così ricominciare a contare più
volte senza raggiungere un risultato finale sino all’alba, quando sono
costrette ad abbandonare il loro intento. Simile finalità avrebbero dei
sacchetti di sale o sabbia lasciati dietro le porte o sotto il letto.
Vi erano vari modi per conoscere l’identità
delle janare. Il più banale era certamente
quello di coglierle in flagrante mentre si riunivano in circolo sotto antichi
alberi, o vicino corpi d’acqua con fuochi accesi. Qualora la janara si fosse presentata in camera da
letto, un modo certo per liberarsene e conoscerne l’identità, era rivolgersi
con questa frase: “janà, viè p sale”.
A questo punto la strega sarebbe stata costretta a presentarsi il giorno
successivo chiedendo del sale, rivelandosi inequivocabilmente. Un modo più
teatrale per individuare una janara,
poteva essere eseguito durante la messa di mezzanotte della vigilia di Natale.
Era sufficiente recarvisi con un falcetto convenientemente nascosto sotto la
giacca e, non appena la funzione fosse terminata, disporsi presso la porta di
uscita, rendendo così impossibile per le janare
lasciare la chiesa. Lo stesso risultato è ottenibile lasciando aperto il
messale sull’altare. Una volta conosciuta l’identità di una janara non era necessario rivelarla; più
egoisticamente si poteva garantire il segreto alla strega, la quale in cambio
avrebbe promesso protezione per sette generazioni per sé e la propria famiglia.
Analoga protezione poteva essere lucrata anche tenendo una janara come nutrice. Secondo alcuni, tuttavia, occorreva tenere
traccia scritta della promessa di protezione tramite un contratto firmato, cosa
che potrebbe essere ancora in mano a diverse famiglie.
Queste credenze sembrano essere il
frutto di una civiltà contadina che, attraverso bizzarre spiegazioni
soprannaturali, cercava di fare luce su ciò che non comprendeva. Attualmente,
tuttavia, è possibile spiegare la maggior parte di quegli eventi in modo
diverso. Intendiamo fare una breve digressione per analizzare l’azione più
caratteristica della janara:
l’attacco durante il sonno di cui abbiamo parlato sopra. Questa azione non
sarebbe prerogativa esclusiva della janara,
ma anche di una figura chiamata pantafeca
o pantaf’ca che si differenza dalla
precedente per avere caratteristiche grottesche o mostruose e per non essere,
di giorno, una normale donna. Da uno studio dell’università di San Diego
pubblicato su “Culture, Medicine and Psychiatry”[2] svolto
in Abbruzzo e dedicato a una figura denominata in quel dialetto pandafeche, risulta come una spiegazione
potrebbe essere la paralisi nel sonno
(sleep paralysis): questo fenomeno si verifica poco prima di addormentarsi
o poco dopo il risveglio ed è caratterizzato dall’impossibilità di muoversi per
un tempo che è oggettivamente breve ma che può apparire soggettivamente esteso
ed è associata ad allucinazioni visive, anche di figure umane, o uditive.
Già questo potrebbe sembrare
esplicativo, tuttavia è possibile essere ancora più precisi tentando di
spiegare il caratteristico senso di soffocamento o impossibilità di respirare
profondamente che spesso viene riferito nei racconti. Un altro studio,
pubblicato su “Consciousness and Cognition”[3],
approfondisce questa peculiarità spiegandone da un punto di vista
neurofisiologico le cause e dimostrando che la sensazione di peso sul petto e
difficoltà a respirare è correlata con la sensazione di una presenza nella
stanza. Quest’ultima è associata da ogni individuo a ciò che conosce: in una
cultura contadina, dunque, alle janare
e alle pantafeche, nell’attuale
società globalizzata principalmente ai rapimenti alieni.
[1] Rohlfs, Gerhard (1960), Europäische Flussnamen und ihre historischen
Probleme.
[2] Cult Med Psychiatry. 2015 Mar 24.
Cultural Explanations of Sleep Paralysis in Italy : The Pandafeche Attack and
Associated Supernatural Beliefs.
Jalal B. et Al.
[3] Conscious Cogn. 1999
Sep;8(3):319-37.Hypnagogic and hypnopompic hallucinations during sleep
paralysis: neurological and cultural construction of the nightmare.
Cheyne
J. et Al.




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